Articolo tratto dal Correre Cesenate
di Paolo Turroni
Domenica 17 ottobre, alle 10, dom Giustino Farnedi, abate emerito di Pontida, monaco cresciuto all’Abbazia del Monte di Cesena, riceve il prestigioso “Lôm d’or” dall’Accademia dei Filopatridi, presso il cinema teatro Moderno di Savignano. Abbiamo incontrato il sacerdote cesenate.
Cosa si prova a ricevere questo premio, che rinnova nel nome la fiaccola del sapere, di ispirazione pascoliana?
Anche se sono un vecchio leone attempato, ricevo quello che mi donano con la tipica gioia romagnola. A parte l’essere un abate da trent’anni, sono parroco e vivo con gioia anche questi momenti di festa: anche domenica scorsa a Perugia ho amministrato le cresime, quindi vivo i momenti più solenni e più quotidiani con la stessa felicità. Riguardo le cariche, con gli anni ne ho accumulate un bel po’. A livello religioso sono diventato alcuni anni fa, per la diocesi di Perugia, cavaliere del Santo Sepolcro. Oltre a essere cavaliere, mi hanno subito promosso, come abate, non commendatore, ma grand’ufficiale, onore che solitamente si dà solo ai vescovi, e sono stato insignito di questo onore dal cardinale Gualtiero Bassetti nella Porziuncola di Santa Maria degli Angeli di Assisi. Sei anni fa sono stato onorato di fare parte dell’Accademia dei Filopatridi: in questo modo è stato ricostruito il legame che l’Accademia aveva con l’Abbazia del Monte, nella figura di padre Leandro Novelli. In quell’occasione, oltre a ricevere il medaglione, ho visitato la sede dell’Accademia, e ho donato il volume sulla storia dell’Abbazia di San Pietro a Perugia, la mia opera più importante per quella città. Sono il primo ecclesiastico (dopo il cardinale Pio Laghi e monsignor Pietro Sambi) ad avere ricevuto questa onorificenza. Domenica alla cerimonia presenterò i miei rapporti con Savignano, dove ho sostenuto l’esame di terza media. Ricordo bene il preside di quella scuola, un signore anziano e benevolo. Lascerò il mio omaggio, non solo in quanto ecclesiastico, ma in quanto studioso: presenterò il primo volume sui monasteri benedettini in Umbria, una grande opera che si completerà con altri due tomi su cui sto lavorando.
Qual è l’eredità del Monte come monaco?
Sono entrato al Monte il 6 luglio 1950. Al Monte ho vissuto per 40 anni. In questo monastero ho bevuto lo spirito di quella grande comunità, che è stata di una umanità unica. Eravamo 15 seminaristi, una comunità molto unita. Siamo cresciuti a pane, latte e latino. Gli studi classici sono stati lì: otto anni di latino e cinque di greco. La scuola e lo studio erano la nostra vita, insieme a un po’ di giochi nel chiostro del Monte, o a calcio balilla o ping pong nella sala apposita. Il Monte era una grande famiglia, di grandi e piccoli, in un contesto cittadino ma anche rurale. Noi giovani collaboravamo ai servizi della casa e della chiesa, ma anche alla falegnameria, all’officina meccanica, alla cantina, all’orto. Non so se ce ne siano ancora molti in Italia, di uomini che hanno pigiato l’uva coi propri piedi quando si faceva la vendemmia, e raccolto tante esperienze della vita agricola, come ho descritto nel mio volumetto “Monaci a tavola”, scritto con Nadia Togni.
Era una specie di famiglia allargata.
Per me, da un certo punto di vista, valeva più la famiglia monastica di quella naturale. Volevo bene ai miei, ma la mia vera casa era il Monte. Ho vissuto delle belle esperienze: ricordo la consegna della medaglia d’oro al monastero per i meriti in tempo di guerra, sia per aver salvato 600 persone, sia per aver salvato i codici preziosi della Malatestiana. Fu il capo del governo, Giuseppe Pella, a consegnarla, negli Anni Cinquanta, di fronte a tutte le autorità civili e religiose. Dopo, la mia vita si è spesa in molte altre esperienze monastiche. Sono stato bibliotecario a Sant’Anselmo a Roma, docente di paleografia latina, ed infine direttore della Libreria Editrice Vaticana per cinque anni con papa Giovanni Paolo II. Ma nonostante i viaggi, le esperienze, tornare al Monte è tornare a casa. Tornare per le feste e, purtroppo, per i funerali: il Monte è casa mia.
Quali furono altri luoghi importanti?
A 50 anni fui eletto abate a Pontida, dove sono stato abate e parroco. Gli ultimi diciotto anni, fino ad oggi, sono stato a Perugia, nell’Abbazia di San Pietro, celebre per la sua monumentalità e la cultura. Nella casa (cioè nel monastero) dove vivo, coi docenti delle facoltà di Agraria e Veterinaria, ho fatto spesso lezioni di tutti i tipi, dalla storia dell’agricoltura, fino alla medicina.
Si può dire quindi che il filo rosso è sempre la storia.
Il filo rosso è lo studio storico. Il Monte è stato la causa del mio amore per la storia. I benedettini hanno la storia nel Dna.
Qual è la situazione dei benedettini nel XXI secolo?
Siamo in una fase della storia, fra alti e bassi. In tutta la Chiesa c’è una diminuzione delle vocazioni, con una crescita di movimenti, o la presenza di forti individualità, ad esempio singoli che vogliono vivere come eremiti. La vita monastica però ha una forte ripresa nei Paesi africani e asiatici. Nel nostro monastero in Vietnam ci sono ben 80 giovani monaci. Che cosa manca a una ripresa? Non l’ideale, ma la capacità di trovare forme di equilibrio fra vita spirituale, lavoro e studio, per essere significativi nella nostra società. Faccio un esempio: l’abbazia femminile di Rosano vicino a Firenze ha 50 monache, di cui quattro novizie. Proprio per questo equilibrio, queste giovani si esprimono attraverso il lavoro. Resta valido il principio che il lavoro resta il cardine della vita monastica. Io credo che la salvezza per il ritorno del monachesimo sia proprio il lavoro, che si esprime in tanti modi diversi, dall’artigianato, alla gastronomia, alla cultura. Equilibrio tra liturgia, celebrata con proprietà, la lectio divina (lettura spirituale della Bibbia), e l’attività pratica, che comprende anche quella culturale.